Poesia della precarietà, dell'anelito insoddisfatto che allude ad un esilio in continuo divenire, la “parola” di Ion Deaconescu germina e si sviluppa in un territorio senza storia, un territorio interiore dove gli elementi sembrano nominati per la prima volta. Il cielo, l'acqua, la luce si mostrano con una lentezza riflessiva molto simile allo spleen. Pan è morto ma qualcosa di pagano, di antico, riemerge sempre rinnovandosi nel grido stesso degli elementi dati all'uomo, al poeta: “Hai fatto un passo sulla conchiglia/ E un grido di una gran devastazione/ Si è fatto sentire dappertutto”. La parola si carica di ambiguità in un creato ancora da decifrare. La meraviglia allora sembra un punto fermo che nutre il poeta in preda allo sguardo e alla carne. Quando sentirò gridare il mio nome/ O il nocciolo del sogno/ che comincia a dare il suo frutto/ Alle porte della meraviglia?/. Il grido, che da sempre annuncia un fremito vita e timore che, anche grazie alla poesia, può diventare lo stupore d'esistere.
commento critico di Wolfango Testoni