Emilio Coco - Italia
I ricordi per Emilio Coco sono, in molte delle sue poesie e in particolare in quelle che presentiamo qui oggi, legati alla casa. Tutti gli spazi di una casa natale o immaginaria, sono fondamentali per la lettura della nostra vita attraverso le stagioni dell’età. Il poeta ritorna con la mente alla casa e il segno del ritorno sottolinea infiniti ricordi legati ai luoghi della propria infanzia, del proprio vissuto che ritornano attraverso le stanze, le pareti screpolate e le lampadine che pendono tremolanti dalla soffitto nella modesta casa della nonna, la casa sognata nella giovinezza insieme alla propria compagna, una casa “confinata per sempre nell’angolo più buio della memoria”, perché mai costruita e la casa dove ha vissuto e vive che diventa la dimensione intima dello spazio, che offre rifugio e sicurezza. Le poesie di E. Coco hanno la capacità di unire il suono della parola, il ritmo del verso ad un andamento narrativo dove la parola si fa immagine.
ERA UNA CASA PIENA DI RICORDI
Era una stanza messa sopra l’altra
con le pareti tutte screpolate
da dove penzolavano
fili elettrici mezzo spelacchiati
con una lampadina traballante
che a ogni soffio di vento si spegneva.
Erano quattro muri indifferenti
ai tanti sacrifici
era una fredda tavola aspettando il suo arrivo
un pranzo in solitario senza senso
una minestra fredda inzuppata di pianto
un solo piatto sporco da lavare.
Era un bagno senza lavello e water
erano strisce storte di giornale
fissate con un chiodo al caminetto
erano quelle la sua carta igienica
era un’acqua piovana versata nel bacile
da mani tremolanti che facevano
fatica ad arrivare fino al viso.
Era un letto di foglie di pannocchie
adagiato su trespoli sconnessi
era un letto che dentro le lenzuola
aveva per marito un crocefisso.
Era uno sfilacciato copriletto
con due cuscini senza alcun motivo
era un lenzuolo che era stato bianco
e adesso tutto sporco di lacrime e saliva.
Era un braciere di polvere nera
e scarsa carbonella
con schegge di tizzoni
che facevano fumo più che fuoco.
Questo era tutto.
Era mia nonna e gli occhi suoi gioivano
quando stretto nel fazzoletto a quadri
le aprivo ancor fumante
un piatto di zitoni al pomodoro
che le portavo con il fiato in gola
salendo a due a due
i gradoni di via Cappellini.
ME LA RICORDO ANCORA.
La costruivo mattone su mattone
con la mia fidanzata
lì dove la stradale provinciale
s’incrociava con una carrareccia
che portava al paese.
Ci fermavamo lì seduti su un muretto
forte abbracciati e con gli occhi sognanti
a pensare la nostra bella casa
costruendo rifugi per l’amore
su un’amaca attaccata al tronco del ciliegio
o sul prato odoroso di mentuccia
in un giardino tutto recintato
a ripararci dagli sguardi estranei.
Nessuna casa intorno
la più vicina ad oltre cento metri.
Mi turavo le orecchie
allo strepito della scavatrice
che ammontonava nuvoli di terra
nel cassone di un camion sgangherato
o al frastuono delle autobetoniere
che con i loro tubi riversavano
fiumi di calcestruzzo
nelle casse di legno dei pilastri.
E la nostra villetta prendeva consistenza
con gli allacci delle tubature
la posa del parquet e degli infissi
con il letto a due piazze sistemato
al centro di una stanza tutta in rosso.
Quante volte l’abbiamo immaginata
seduti sul muretto
di quel pezzo di campo invaso da sterpaglie
ma eravamo giovani e le tasche
risuonavano a vuoto
e in quel posto rimase
la cenere di qualche sigaretta
col mozzicone spento sotto il piede.
E lasciammo la casa confinata per sempre
nell’angolo più buio della memoria.
Perché così succede
perché s’invecchia in una casa estranea
senza nessun muretto e brama di volare.
AVRESTI POTUTO ESSERE NORMALE
sempre me lo rimprovera mia moglie,
fare una vita come tutti gli altri,
alzarti ogni mattina senza l’ansia
di metterti al computer, gustarti il buon caffè
che appena m’alzo, senza andare al bagno,
preparo con amore e tu con la tua fretta
maledetta, potevo mai pensare
che avresti consumato i tuoi migliori anni
a inseguire affannoso i tuoi fantasmi,
qualcosa che non c’è, che non si tocca
ma che t’agita tutto, che ti fa male al cuore.
Avresti potuto essere notaio,
grande uomo politico, scienziato,
ma hai preferito affliggerti la vita
coi tuoi versi, coi dubbi, le incertezze
e hai abbandonato i sogni di grandezza
tutto quel che di meglio
t’avrebbe offerto la tua intelligenza
per perderti in un mondo fatto di niente.
Vieni in cucina, vieni ad aiutarmi
che oggi è il tuo santo o l’hai dimenticato
volevo prepararti una sorpresa
ma mi passa la voglia se ti vedo
con quell’aria sperduta. Non mi ascolti,
Emilio non mi ascolti. Tu e i tuoi inutili
poeti li vorrei ammazzare tutti,
buttare te e i tuoi libri dal balcone
che Dio mi perdoni.
Ma allora non capisci
che scrivere poesie è un modo per tenerti a me vicina
se ti prendesse la briga di leggerle
ti vedresti riflessa in ogni verso
Poesía eres tú, lo dice Bécquer,
sei l’erotica, sei la benamata,
sei il sentimento intenso che traspare
da ogni mia parola,
sei tu la mia vertigine, la mia ubriacatura,
la mia sofferenza quando a notte
m’infilo piano sotto le coperte
desiderando ardentemente prendere
quel tuo corpo estraneo.