Vai al contenuto

EIV 2023 | Poesie di Emilio Coco

Emilio Coco - Italia

I ricordi per Emilio Coco sono, in molte delle sue poesie e in particolare in quelle che presentiamo qui oggi, legati alla casa. Tutti gli spazi di una casa natale o immaginaria, sono fondamentali per la lettura della nostra vita attraverso le stagioni dell’età. Il poeta  ritorna con la mente alla casa e il segno del ritorno sottolinea infiniti ricordi legati ai  luoghi della propria  infanzia, del  proprio  vissuto che ritornano attraverso le stanze, le pareti screpolate e le lampadine che pendono tremolanti dalla soffitto nella modesta casa della nonna, la casa sognata nella giovinezza insieme alla propria compagna, una casa “confinata per sempre nell’angolo più buio della memoria”, perché mai costruita e  la casa dove ha vissuto e vive che diventa la  dimensione intima dello spazio, che offre rifugio e sicurezza. Le poesie di E. Coco hanno la capacità di unire il suono della parola, il ritmo del verso ad un andamento narrativo dove la parola si fa immagine.

ERA UNA CASA PIENA DI RICORDI

Era una stanza messa sopra l’altra

con le pareti tutte screpolate

da dove penzolavano

fili elettrici mezzo spelacchiati

con una lampadina traballante

che a ogni soffio di vento si spegneva.

Erano quattro muri indifferenti

ai tanti sacrifici

era una fredda tavola aspettando il suo arrivo

un pranzo in solitario senza senso

una minestra fredda inzuppata di pianto

un solo piatto sporco da lavare.

Era un bagno senza lavello e water

erano strisce storte di giornale

fissate con un chiodo al caminetto

erano quelle la sua carta igienica

era un’acqua piovana versata nel bacile

da mani tremolanti che facevano

fatica ad arrivare fino al viso.

Era un letto di foglie di pannocchie

adagiato su trespoli sconnessi

era un letto che dentro le lenzuola

aveva per marito un crocefisso.

Era uno sfilacciato copriletto

con due cuscini senza alcun motivo

era un lenzuolo che era stato bianco

e adesso tutto sporco di lacrime e saliva.

 

Era un braciere di polvere nera

e scarsa carbonella

con schegge di tizzoni

che facevano fumo più che fuoco.

 

Questo era tutto.

Era mia nonna e gli occhi suoi gioivano

quando stretto nel fazzoletto a quadri

le aprivo ancor fumante

un piatto di zitoni al pomodoro

che le portavo con il fiato in gola

salendo a due a due

i gradoni di via Cappellini.


ME LA RICORDO ANCORA.

La costruivo mattone su mattone

con la mia fidanzata

lì dove la stradale provinciale

s’incrociava con una carrareccia

che portava al paese.

Ci fermavamo lì seduti su un muretto

forte abbracciati e con gli occhi sognanti

a pensare la nostra bella casa

costruendo rifugi per l’amore

su un’amaca attaccata al tronco del ciliegio

o sul prato odoroso di mentuccia

in un giardino tutto recintato

a ripararci dagli sguardi estranei.

Nessuna casa intorno

la più vicina ad oltre cento metri.

Mi turavo le orecchie

allo strepito della scavatrice

che ammontonava nuvoli di terra

nel cassone di un camion sgangherato

o al frastuono delle autobetoniere

che con i loro tubi riversavano

fiumi di calcestruzzo

nelle casse di legno dei pilastri.

E la nostra villetta prendeva consistenza

con gli allacci delle tubature

la posa del parquet e degli infissi

con il letto a due piazze sistemato

al centro di una stanza tutta in rosso.

Quante volte l’abbiamo immaginata

seduti sul muretto

di quel pezzo di campo invaso da sterpaglie

ma eravamo giovani e le tasche

risuonavano a vuoto

e in quel posto rimase

la cenere di qualche sigaretta

col mozzicone spento sotto il piede.

E lasciammo la casa confinata per sempre

nell’angolo più buio della memoria.

Perché così succede

perché s’invecchia in una casa estranea

senza nessun muretto e brama di volare.


AVRESTI POTUTO ESSERE NORMALE

sempre me lo rimprovera mia moglie,

fare una vita come tutti gli altri,

alzarti ogni mattina senza l’ansia

di metterti al computer, gustarti il buon caffè

che appena m’alzo, senza andare al bagno,

preparo con amore e tu con la tua fretta

maledetta, potevo mai pensare

che avresti consumato i tuoi migliori anni

a inseguire affannoso i tuoi fantasmi,

qualcosa che non c’è, che non si tocca

ma che t’agita tutto, che ti fa male al cuore.

Avresti potuto essere notaio,

grande uomo politico, scienziato,

ma hai preferito affliggerti la vita

coi tuoi versi, coi dubbi, le incertezze

e hai abbandonato i sogni di grandezza

tutto quel che di meglio

t’avrebbe offerto la tua intelligenza

per perderti in un mondo fatto di niente.

Vieni in cucina, vieni ad aiutarmi

che oggi è il tuo santo o l’hai dimenticato

volevo prepararti una sorpresa

ma mi passa la voglia se ti vedo

con quell’aria sperduta. Non mi ascolti,

Emilio non mi ascolti. Tu e i tuoi inutili

poeti li vorrei ammazzare tutti,

buttare te e i tuoi libri dal balcone

che Dio mi perdoni.

Ma allora non capisci

che scrivere poesie è un modo per tenerti a me vicina

se ti prendesse la briga di leggerle

ti vedresti riflessa in ogni verso

Poesía eres tú, lo dice Bécquer,

sei l’erotica, sei la benamata,

sei il sentimento intenso che traspare

da ogni mia parola,

sei tu la mia vertigine, la mia ubriacatura,

la mia sofferenza quando a notte

m’infilo piano sotto le coperte

desiderando ardentemente prendere

quel tuo corpo estraneo.