Il Premio Europa in versi 2017 si è chiuso il 28 febbraio e a marzo sono stati svelati i vncitori ed i finalisti del concoro letterario, articolato in otto categorie tra poesia e prosa. Questi sono stati premiati durante il Festival Europa in versi, alla fine del reading tenutosi nella splendida Villa Gallia, dove hanno avuto la possibilità di leggere parte delle opere che hanno giovato loro il riconoscimento della giuria.
Ma vincitori e finalisti rimangono da scoprire: di chi e di quale scrittura stiamo parlando? Eccoli quindi svelati per voi!
Nei prossimi mesi li presenteremo uno ad uno: collaboratori de La Casa della Poesia di Como e membri della giuria hanno recensito le opere da loro presentate al Premio. Che li abbiate visti durante Europa in versi e siate rimasti affascinati dai loro versi o che siano ancora soltano un nome dal suono vagamente familiare, vale la pena di scoprirli a fondo.
Maria Pia Quintavalla Renata Ameruso Giancarlo Stoccoro Giuseppe Condorelli Isabella Moretti Gili Haimovich Lorenzo Scarponi Alessandro Grippa Martina Pini Piera Giordano Chiara Alessandra Piscitelli Pietro Rainero Bruno Cimino Stefano Marino Stefano Simoncelli Mariastella Eisenberg Sandro OrlandiMARIA PIA QUINTAVALLA - vincitrice del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia inedita
Nata a Parma e residente a Milano Maria Pia Quintavalla ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali Cantare semplice (1984), Lettere giovani (1990), Album feriale (2005), Selected poems (N.Y. 2008), I Compianti (2013). Vincitrice di numerosi premi, è stata più volte finalista al Viareggio.
Collabora con l’Università degli studi di Milano e con quella di Parma realizzando laboratori di scrittura, cura la rassegna Donne in poesia e le rubriche di diverse riviste storiche di poesia.
Con le poesie della serie Mater (I-III) ha vinto la sezione Poesia inedita del premio Europa in versi 2017, grazie ad una espressione vissuta e vibrante del rapporto madre-figlia, che si incarna in una poeticità versatile, capace di alternare versi lunghi ad una espressività icastica, quasi aforismatica. Un tessuto di ampio respiro, dalle cadenze narrative, ma articolate su una tensione emotiva che si mantiene sempre altissima, in funambolico equilibrio tra racconto e lirismo, garantendo la presa diretta sulle qualità di entrambi i versanti.
Il dialogo tra l’io-madre e il tu/lei-figlia, tutto traguardato dal lato della madre, dà come dato di partenza l’inconoscibilità di base dell’altro – e sia pure un figlio- nella parabola esistenziale inevitabile di un allontanamento che si fa tanto più evidente quanto più l’età e il grado di autonomia aumentano esponenzialmente. Una figlia osservata per lo più da una prossimità “casalinga” che sembra al tempo stesso una distanza incolmabile. Talvolta quasi spiata furtivamente, col desiderio di coglierne l’autenticità e quei gesti, quei momenti identitari assoluti nei quali si riflette una personalità e che solo una madre sa riconoscere (“ma se la guardi appena, dietro al viso c'è /ancora quel sorriso e gesto pieno / della mano...”).
Difatti, altrettanto irrinunciabile è la spinta all’avvolgimento dell’altro nello slancio emotivo che attinge ad una dimensione ancestrale, archetipica, le cui profondità raggiungono le zone d’ombra e la densità profonda del sangue in un rapporto che non è un punto di arrivo, ma ancora un dato di partenza di cui l’io stesso non può che prendere atto, come di una presenza che esula dalla volontarietà della memoria: “e sola sarai tu che là / pazienti sulle orme delle mani cerchi / il tuo sangue quando volata via con te,.../”
Mater I (due sono una) è la presa di coscienza di quel distacco ineluttabile, di un lento scivolare via che si vorrebbe trattenere e che si osserva con intenerita consapevolezza, quando l’identità si scinde in due monadi autonome nelle quali si vorrebbero continuare a vedere sovrapposizioni, continuità che forse ci sono e forse no: “L'immagine che guarda fissa è la sua vita / non lo sai se è aperta / o chiusa al tuo orizzonte ma / decisa, scende dalla sua strada / in una sua radura...”
La memoria riflette ciò che il sé pensa di sé e vorrebbe vedere nell’altro, nutrendo così nell’incertezza una sofferenza interiore che non ha cause esterne clamorose, ma si sostanzia nella presa del potere di un’estraneità che si sente via via più forte, ma a suo modo meravigliosa. E in Mater II (nata dal riso) c’è la gioia di vedere crescere, l’amore per una vita diversa, con la quale inevitabilmente non si può condividere la stessa storia, (“Lei è più libera più umana, non conosce / guerre, né latitudini del nero / il novecento appena lo ha leccato...”) ma anche il doloroso piacere di sapere che l’altro non potrà mai capire l’ambivalenza del non riconoscersi e della speranza incompiuta della continuità: “non sa come tenere esorcizzato quel demone / che è un'Altra donna, una che in piedi / crede specchiarsi /nelle sue gambe nude. Non capirà./” Sullo sfondo, la ciclicità di un destino d’amore che si ritorce contro se stesso. Ma è l’ordine del mondo e in fondo è giusto che sia così: “ma lo diresti / quanto sangue e voce ci è voluta per tagliare/ quel cuore intero in una luce sua, / che ti divora.... la sua nascita va verso la tua morte./"
La successione delle tre stazioni dolorose (lo stesso nome “mater” alla latina, allude vagamente alla mater dolorosa per eccellenza) si avvita tuttavia in una spirale in crescendo che raggiunge una drasticità quasi brutale in Mater III (io scrivo China per pulire), nella quale i contrasti lessicali tra negazione e dolcezza, tempo passato e tempo presente, comunicazione e mistificazione si fanno violentissimi, accentuando i moti centrifughi a partire dalla bellissima sequenza di endecasillabi e novenari con cui si apre la poesia (“ Io scrivo china per pulire / nell’inchiostro, di infermità piegate/...”) e assumere una forza quasi dantesca nella ribellione della parte centrale: “a tutti mi descrive come morta, / e dice cose su me sulla mia vita / come quelle antiche quasi / fossi un oggetto inanimato, va verso piante nude / a dire oro e schifo, ombra e luce, / dentro sè tenta tenere strangolata / la carne dolce che l’ha generata;..” Ove l’enjambement continuo e la tensione verso l’endecasillabo formano una corrente ritmica corrusca e corrucciata, che si risolve solo nell’immagine conclusiva. Ma è la resa di una positività delegata ad altri, nella speranza che per la figlia, almeno altrove e con altri rapporti umani, ci sia una serenità conquistata: “Guardo a riva se alcuno trasporti via / da me una lei lieta, / per andare a stornare di traverso / riaffiorare vere, le vene del suo mare./”
Recensione di Andrea Tavernati
RENATA AMERUSO - vincitrice del premio Europa in versi 2017, sezione Narrativa edita
Gli ultimi due secoli per gli italiani sono stati secoli di grandi migrazioni in tutto il mondo. E anche Francesco Russo da un paese del sud Italia si è trasferito – povero – in Brasile con la giovane e bellissima moglie Vittoria, figlia di un importante notabile. Un Brasile ricco di possibilità, anche per un ragazzino immigrato di sedici anni, di fare i soldi. Francesco è sveglio e insieme al fratello maggiore riesce ad aprire una redditizia attività e a realizzare il suo sogno: ritornare da vincitore nel paese dove è nato.
Torna e si fa costruire il più bel palazzo della zona, “una dimora degna delle classi altolocate di Napoli”. E può sostituire la vecchia coppola con la quale era partito con un sontuoso cilindro, simbolo della ricchezza e del prestigio conquistati. Ha un unico dispiacere Francesco, o don Francesco come lo chiamano ora: solo figlie femmine. E “l’illusoria speranza di Vittoria, divenuta per lei quasi una certezza, d’aver concepito un maschio, finì miseramente delusa all’inizio del luglio 1902 quando nacque Angelina, la quarta figlia femmina”.
Questi sono i protagonisti e l’ambiente del romanzo “Il mercante” di Renata Ameruso, vincitrice del Premio Europa in versi 2017 nella sezione narrativa edita. Un romanzo che potrebbe essere definito anche storico, perché tratteggia, con sapiente intelligenza e una scrittura vivace, l’Italia di quegli anni. Un affresco su un mondo che abbiamo conosciuto attraverso i libri ma che troppo spesso sfugge alla nostra comprensione.
In quel palazzo e attorno a quel palazzo le storie dei personaggi si snodano come in un puzzle: il suocero assai poco amato di don Francesco (è stato lui a incendiargli il podere?), la vecchia serva Crezia, la donna che ha vissuto da sempre nella casa dei suoi genitori, l’unica che gli dà del tu e che, con il suo carattere spigoloso e deciso, nasconde un segreto che non vuole svelare neppure a lui. La sorella di don Francesco, Rosina, assente dal paese da molti anni, che ritorna per la sua felicità. A far da sfondo l’incombenza della prima guerra mondiale, che non permetterà a nessuno di restare uguale a se stesso.
Renata Ameruso, che vive a Roma dove ha insegnato a lungo storia e filosofia, ha la capacità di raccontare i personaggi nel loro intimo, fino all’insoddisfazione di don Francesco verso i suoi concittadini che non gli riconoscono gli onori che gli spettano: da ricco non è più riuscito a rintegrarsi nel suo vecchio ambiente. Don Francesco si sente un vincente fino nell’anima e quando – finalmente! – arriva il tanto desiderato figlio maschio si sente appagato.
Eppure don Francesco – non sveliamo la trama del romanzo – alla fine rivorrà la sua coppola, in fondo da quel suo paese fatto di regole non scritte, non si è mai allontanato. E lo capisce anche Vittoria, il marito è rimasto sempre lo stesso.
Recensione di Elisabetta Broli
GIANCARLO STOCCORO - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia edita
“Consulente del buio” – L'Erudita Ed. 2017, di Giancarlo Stoccoro è una lunga meditazione sul senso dell'apparire e del ritrarsi della poesia stessa. Luce e buio illuminano e nascondono lo spettacolo che, giorno dopo giorno, si apre al nostro sguardo. Ma le “cose” non sono così immediate e regolari, perché la quotidiana apparenza è anche “Un'ombra / che tiene bene al riparo / la sua luce”. Il vedere può accecare e il buio è anche protezione. Un libro di abbagli e figure che sorgono come miraggi. Cosa resta in tutto questo continuo inabissarsi e sorgere? La parola, unica, che tenta di conoscere: "Preziosa è la parola / che accoglie l'interrogazione / mentre tu vivi nel caos / di un silenzio perfetto." Poesia che accarezza la superficie dei giorni fatti di nuvole e nebbie, di fiumi e piogge, di mare, pietre, stalattiti e sguardi; poesia che, con tocco leggero, cerca identità consapevole che: “Le parole si nascondono dentro ai nomi / delle cose e a volte non escono più...”.
Recensione di Wolfango Testoni
GIUSEPPE CONDORELLI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia dialettale
Il padre, la madre, la terra aspra e la voglia di conservare tutto. Una lingua che si abbarbica e si annoda, dura e lirica. La Sicilia di Giuseppe Condorelli è una felice e drammatica teoria di oggetti e amabili resti, dove i morti “... mi taliunu/ di sgallengiu/ 'i sentu ammummuriarsi / ammenzu i petri / e mi parrunu /...” I morti parlano, le pietre scottano e l'odore di anice solletica i muri. L'anice, una pianta, un profumo particolare che rende la totalità complessa e a volte arcaica di un'intera terra. Poi, la luce. Tutto brilla ma non rallegra. “N'zuppilu n'zuppilu- wet through” - Le Farfalle Ed. 2016 - è un viaggio faticoso e vero dove i sentimenti possiedono lo stesso peso delle “cose” amate quasi fossero, essi stessi, cose da toccare. Il tempo si consuma in silenzio, un silenzio che solo la poesia può misurare con il senso che da sempre l'anima: “Ni scuaggua a junnata /senza na parola /...”. La poesia di Giuseppe Condorelli è un continuo aprirsi e chiudersi tra veloci apparizioni e faticose realtà, tra feticci di vestiti e corpi. I morti hanno lo splendore buio della terra che concimano con il loro ripetuto ritorno ma, come fa capire il poeta, l'uomo è anche durezza amabile e presente che si incontra nel silenzio perché: “A tunnari a essiri petra / non ci voli nenti. / Do scuru to tempu / non si fa mai jornu.”
Recensione di Wolfango Testoni
ISABELLA MORETTI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia inedita
Poetessa pisana di nascita, già autrice delle sillogi: Affioramenti (1995) e Ritmo lento (1998), nei tre testi presentati al Premio internazionale Europa in versi 2017: Per come mi tocchi, Codice genetico e La finitezza, strascico sdrucito si prende cura con ostinatezza e precisione del transeunte, utilizzando la parola poetica come mezzo (infallibile?) per inchiodarlo ad un supporto, per quanto possibile. La poesia come ipotesi di persistenza, la parola come testimonianza di uno stato dell’essere, o delle cose, nel momento stesso in cui si esperisce, o nella dinamica del ricordo, poiché l’atto di ricordare è a sua volta un atto creativo, e quindi fondante del reale, così come viene e verrà percepito.
Nessuna differenza, da questo punto di vista, tra storia individuale ed oggettività, se non per uno slittamento di piani che allargano dal rapporto io/tu ad un noi che diventa condizione universale, in particolare in La finitezza...
I tre testi presentati vengono così a costituire un percorso ideale e progressivo con un ritmo ancora lento e meditativo, versi brevi e spezzati in Per come mi tocchi, per poi assumere un’urgenza di dire via via più incalzante nei componimenti successivi, percorsi da immagini sempre più icastiche e allucinate: ...L’eco di frasi disarticolate / come un diluvio al mercurio...sparisco se mi frughi, / dietro le serrature di questa stanza / disadorna / nell’esigenza di un raccontarsi e raccontare venato da una sotterranea ansietà, quella della perdita dell’ultima, o forse unica, occasione per poter esprimere qualcosa che non ha altre ancore di salvezza se non nella parola. Cosa di cui la voce parlante ha altissima coscienza, pur badando bene di occultare la propria passionalità in una scrittura sempre misurata e accuratamente limata in ogni singolo componente, e utilizzando volutamente un linguaggio piano e subito comprensibile, ma ricco di improvvise accensioni: ...nelle pliche del mio corpo rugginoso... sono fiera / come una rosa canina...
In Per come mi tocchi è la persistenza del rapporto tra io e tu in un rapporto amoroso sommesso e sorvegliato di sottecchi a diventare protagonista di un’indagine su differenti azioni e condizioni nelle prime due strofe (se...). Percezioni fisiche e assenze (Capisco se prendi casa / nel vuoto...) che nelle strofe successive diventano assertività della volontà di conservare, anche a dispetto dei limiti di entrambi: Metto un residuo di elasticità / nell’intendere il tuo sogno, /che non dici. / Lo avvolgo, ti avvolgo / solo di polpastrelli smemorati.
Codice genetico sposta decisamente l’attenzione sul piano del ricordo. Un ricordo personale e sofferto, con una figura genitoriale non più presente, ma con la quale si intende ribadire orgogliosamente la contiguità, la trasmissione di un codice genetico appunto, al di là della stessa distinzione sessuale (sono il tuo figlio maschio /e sono fiera.../ di assomigliarti / fin dentro il midollo.) e a prescindere dall’andirivieni veritiero o ingannevole dei ricordi: a ritmo diseguale / procedo o torno indietro / nel passato...
Ma è con La finitezza...che la poesia di Isabella Moretti si fa universale e si affaccia sul mistero ontologico dello “strascico sdrucito” che pende dal fianco delle cose vive (...) storce ortogonali (...). Un destino di entropia, non più legato a ineluttabili cause sovrannaturali, ma non meno incomprensibile e inaccettabile, che non possiamo che registrare come gli occhi di una gatta (...) mentre vorremmo / tra palpebre socchiuse/ stringere il senso di una negoziazione. E invece l’unica cosa che ci resta è il senso di una compassione nel riconoscere questo destino comune, che “ci allaga”: Piove / sotto la volta del cervello./ E non abbiamo ombrello.
Mentre vorremmo perlomeno poter capire qualcosa di basico ed essenziale, come “la poesia di un sasso”. Forse l’aspirazione ultima del discorso poetico, cogliere quegli affioramenti che ci possono essere anche in un mistero impenetrabile come quello di un sasso, indagare la materia più intima dell’essere che pure parla, alla ricerca di un perché.
Recensione di Andrea Tavernati
GILI HAIMOVICH - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia inedita
Gili Haimovich è poeta e traduttrice bilingue anglo-ebraica, ha pubblicato sei libri di poesia in ebraico e una selezione di poesie scritte originariamente in inglese: Living on a Blank Page. La sua poesia è stata pubblicata in numerose riviste e antologie israeliane ed internazionali e tradotta in francese, cinese, bengalese e rumeno. Nel 2016 ha vinto il 3° premio per il concorso internazionale di poesia del Proverse Press. Lavora anche come docente di scrittura creativa ed è terapeuta in arti interdisciplinari focalizzate sulla scrittura.
Nelle tre poesie con le quali Gili Haimovich ha partecipato al premio Europa in versi prevale una sorprendente attitudine a definire la realtà per arte di levare, non tanto mirando all’essenzialità linguistica, quanto allo smontaggio dei contenuti del rapporto io-tu, io-mondo attraverso una capacità di osservazione implacabile di quanto di mitizzato e di sognato si sovrappone continuamente ai dati di fatto di un’esistenza consumata in una quotidianità disincantata e disillusa.
Poesia eminentemente urbana e laica, quella di Gili Haimovich esula da qualsiasi tentazione di appoggio alla grande tradizione della letteratura ebraica per approdare ad una voce radicalmente contemporanea ed illuminista, che non si sottrae alle lusinghe della propria stessa intelligenza speculativa, spargendo sulle piccole gioie e sui piccoli sogni della gente comune e del proprio stesso attraversamento del mondo la polvere magica di una sottile ironia. Ciò è possibile grazie ad un certo distanziamento, per cui l’occhio e il pensiero del poeta rimangono sempre un po’ indietro (“Oggi anche gli autobus mi mostrano il sedere”) o al di fuori (“le ali della libellula che fui erano di vetro”) delle situazioni descritte.
Che sono prese di coscienza di stati di impossibilità, dove la relazione fra l’io e il tu s’impone per equivoci analogici (“a forza di guidare il volto del motociclista in sorpasso /diventa il tuo”) o in forza di un paradossale estremismo negatorio in cui “ci aggrappiamo alla sola barriera che ci resta / il velo di foschia suburbana /che non abbiamo mai scelto di dissipare”. Per contro il panorama delle “vite prosaiche” è costantemente disseminato da concretissimi punti fermi: “Indosso pantaloni sicuramente neri”, “le solite carne e ossa”, “bello vederti annidato in un maglione screziato”.
Ma gli oggetti fanno da contrappunto ad un idillio sfocato, in cui c’è sempre una sfasatura in un’opportunità (un desiderio?) che non si concretizza, come nella poesia Oggi anche gli autobus mi mostrano il sedere, nella quale l’evocazione dell’altro rimane in una nebulosa teorica, un’ipotesi di improvvisazione che non dà certezze.
In La libellula, invece, la metafora della presa della coscienza del sé sovverte il luogo comune della delicatezza femminile facendo volar via la maschera che si frappone al noi, ma anche rende possibile l’unione dei due componenti.
Mentre Bello incontrarti in periferia è un inno sarcastico e doloroso insieme allo sventramento dei rapporti senza ragion d’essere e senza veri contenuti, in cui la miseria dell’assenza di eroici furori si rispecchia in una periferia anonima e desolata, una periferia anche di se stessi.
E tuttavia tutte e tre le poesie di Gili Haimovich si concludono con parole che circoscrivono una pur minima certezza o indicano almeno una direzione di ricerca. In fondo alla svagata guida di Oggi anche gli autobus...il poeta “sa dove siamo, anche se solo per istinto”. La libellula si conclude con l’orgogliosa immagine dell’ “energia che appartiene a una donna”, e Bello incontrarti... pur negandola, lascia intravvedere la possibilità di “tirar fuori / una specie di / nucleo.”
Che forse tanta radicale forza negatoria nasconda l’invito a togliere tutti gli orpelli, a eliminare tutte le sovrastrutture delle convenzioni civili, delle abitudini e delle vecchie tradizioni per riscoprire, proprio attraverso la forza della poesia, l’essenza del vero? È forse l’invito di questi testi, apparentemente modulati come riflessioni rubate a un pensiero ondivago, frammenti di un discorso ininterrotto fra sé e sé e in realtà composti in modo rigoroso e controllatissimo, senza una parola in meno o in più del necessario.
Recensione di Andrea Tavernati
LORENZO SCARPONI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia dialettale
La poesia di Lorenzo Scarponi è un viaggio tra il presente e la memoria, una memoria che si rinnova nelle cose e nella parola. Parola che ha sia tutto il vigore del dialetto romagnolo, stratificazioni d'uso e di storia, che l'attualità del rinnovarsi perché: “A la fòin, tout u s còr dri cumè da tònda m'un cerchio magico, duvò che tòt e' cmòinza, e' finès, l'arcmòinza...”. Ma cosa accade in questo vivere dove il tempo sembra ritornare cambiando le voci o rimarcando gesti ed abitudini conosciute? Chi osserva medita sull'amaro conforto delle cose, cose fatte di sparizioni e abbagli che si impongono come “la cusòina con le sue lòzli” che salivano fino al tetto. Una lingua, il dialetto di Bordonchio, che nel ritmo aspro e quasi acerbo, impone alla lettura un respiro sincopato: “...pina ad stléunc, ad zòch / e' fugh; al lèngvi dal fiamb i/...”. Un dialetto che costringe il lettore a continue prese di respiro su di un mondo che ritorna con immagini concrete e vive tra borghi e camere. Poche cose: gatti e riviere, lune e piccoli rumori. E mi fiòur - Pier Giorgio Pazzini Editore, 2015 - è una lettura fresca e potente di mondi a confronto, la campagna e la civiltà che cambia, il paesaggio aperto e un angolo chiuso. Un mondo di scricchiolii che non crolla grazie alla forza poetica che lo sostiene.
Recensione di Wolfango Testoni
ALESSANDRO GRIPPA - vincitore del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia giovane
Opera in terra (LietoColle – 2016) di Alessandro Grippa è una raccolta poetica solida ed essenziale che porta il lettore ad osservazioni inedite su paesaggi e situazioni apparentemente noti. La raccolta è suddivisa in cinque sezioni dove, attraverso un linguaggio asciutto e preciso, ci si trova a contatto con il “minimo possibile” di ogni vita. Oggetti e volti, strade, temporali. Le cose si presentano nella loro solidità, vorrei dire solitudine, non senza un incerto rammarico. Si avverte un certo d'abbandono quasi che la vita stessa sia uno strumento perso, un avanzo: Nel capanno degli attrezzi non c'è / luce, domina un catalogo / concluso, inselvatichito. Un libro in cui i corpi stessi si aprono e si chiudono in cortili interiori, in strade d'abitudini, come se noi, gli abitanti, fossimo il luogo che vediamo, con odori e luci. Indimenticabile la figura del padre ancora sparpagliata nel giorno : Restano lì, / gli oggetti senza devozione: / un sacco buco / la camicia / a quadri. Mi vengono in mente i celebri scarponi-autoritratto di Vincent Van Gogh deformati dai suoi passi. Noi siamo gli oggetti che “sono”noi. Alessandro Grippa possiede il colpo d'occhio che attira i dettagli. Una poesia che fa di ogni incontro una domanda nuova sul destino, sul lento ripiegarsi delle cose. Una poesia dove : Nella gola esatta la parola asola / si stringe. A noi dunque la capacità di un respiro nuovo.
Recensione di Wolfango Testoni
MARTINA PINI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia giovane
Le poesie inedite di Martina Pini, classe 1989, presentate alla seconda edizione del Premio Europa in versi si sono imposte per il singolare impasto di freschezza, sapienza e disinvoltura. Se l’ispirazione appare legata all’esigenza tradizionale di interrogarsi sul ruolo dell’io nel mondo e nel rapporto con un tu apparente/disparente che è più un oggetto misterioso che una presenza rassicurante, è nella dialettica delle parti chiamate volta per volta in causa e nell’attrazione gravitazionale reciproca tra parole e oggetti che Martina Pini stabilisce il suo campo di battaglia per mettere decisamente in discussione il senso delle une come degli altri. Salvezza, o quantomeno comprensione –un livello meno scontato di comprensione- c’è solo nella tensione provocatoria che mette in cortocircuito dimensioni apparentemente eterogenee per far scaturire una logica inattesa o barlumi di essenza. Ciò è particolarmente evidente in “Pensavo fosse amore” ove l’ironia gastronomico-erotica fa collassare il discorso rivolto al tu nella fantasia pantagruelica che descrive il pasto come ricerca e ritrovamento dell’altra/altro, con l’aggiunta peculiarità dell’inversione dei ruoli di genere, essendo maschile la voce parlante.
Non meno acuta la frizione fra cosa e senso, quando l’attenzione per il quotidiano più minuto, portatore di un senso più profondo che rischiamo di perdere per pura disattenzione, diventa protagonista in “Ramini”, quelle inutili monetine di rame da 1 o 2 centesimi di cui ci riempiamo le tasche, perché non sappiamo bene cosa farci. Tutto è ramini, elencabile in una vertigine di insicurezze, di profferte incomprese, di disponibilità eluse, di mancanze di coraggio o di quel minimo che avrebbe potuto fare la differenza, ma non c’è stato. Cose che avrebbero pure un valore: “sono già cambiabili in pezzi di carta./ Ma tu non lo sai./” E allora si trasformano in “ramini nelle fontane” che pure brillano, ma sono preda della ruggine. Il senso di struggimento per l’incapacità di far evolvere un abbozzo di empatia in rapporto, in condivisione resta senza riscatto, preda solo della dimenticanza.
Il dolore si fa più acuto, più esistenziale in “So che risalgo...”. Qui la riflessione è pura, si attorciglia su se stessa. L’io non esce dai propri confini e si articola intorno a tre domande senza risposta: “Perché le vostre voci non si consumano mai?” “Come si può essere bloccati in un traffico che non c’è?” “Mi han detto che / un giorno senza carezza è un giorno sprecato./ E una vita?/". Non ci sono più punti di riferimento, ma un desiderio di scioglimento in un paesaggio senza tempo e senza legami, in cui l’oggettualità diventa conquista di uno stato di inerzia, di incoscienza che è l’unica assolutezza possibile: “E poter essere come la nebbia, la sera, sui prati/ E non pensare a niente./”
In questo lucido pessimismo la vis affabulatoria rimane sempre molto intensa, l’urgenza del dire si dispone in un fraseggio articolato, che alterna versi lunghi a versi brevissimi e insiste su immagini del corpo e della natura fotografati per dettagli, incapaci di offrire ritratti e paesaggi completi, come se la realtà potesse essere colta solo per squarci improvvisi, folgorazioni che rivelano di colpo quello che c’è dietro (i ramini, un normalissimo pasto) e che forse il poeta sente di dover in qualche modo rivelare a tutti.
Ma la fusione di autenticità del sentire e di controllo dell’immaginazione non teme di scandagliare territori anche antitetici, come il riferimento a: “Le clessidre sono rotte e / ci sono meridiane accecate sotto il mio letto.” degno di una poesia tardosimbolista o di una natura morta del XVII secolo, fino, sul versante opposto, ad una giocosa brutalità: “Cruda e nuda come solo tu sai essere,/ ma così carnosa che/ ti strappo a morsi/ fino ad amarsi/”. Sentori di una felicità inventiva ed una leggerezza che sono fra le qualità più gioiose di una vitalità ispirata.
Recensione di Andrea Tavernati
PIERA GIORDANO - vincitrice del premio Europa in versi 2017, sezione Narrativa inedita
I giovani, si sa, non sempre sono facili da comprendere. Hanno paure, dubbi. Rabbie difficili da estirpare. Giovani, però, che hanno la voglia di combattere e di farcela, di essere protagonisti di una vita che sentono più grande di loro: non vogliono essere burattini nelle mani degli adulti. Come Linda, la protagonista del romanzo di Piera Giordano Vorrei essere come sono, vincitore del premio Europa in versi per la sezione Narrativa inedita.
Un romanzo che parte da Torino, città agli occhi di Linda difficile, e tocca Camogli, Genova, in un intercalare di situazioni e sentimenti che catturano grazie a un linguaggio semplice ed efficace.
Linda è una ribelle, non per volontà ma per necessità. E lo si capisce già dalla seconda riga del romanzo, quando racconta che il padre "è uscito di casa sbattendo la porta. Ieri sera ho litigato con lui". "Potresti essere più gentile" le suggerisce la nonna. No, non ha voglia di essere più gentile, né con lui né con nessun altro, non con gli adulti, non da quando a dieci anni la mamma la porta da un medico perché sente un rumore dentro la testa, un tarlo. Il dottore sentenzia che è un acufene, la mamma che non ha niente e la famiglia decide che la cura migliore - per lei così magrolina - è quella di rimpinzarla di cibo, a partire dal caffellatte del mattino. Per lei la soluzione a questa violenza arriva per caso, inaspettata, semplice: vomitare tutto.
"Mi sedetti sul water e cercai di respirare lentamente. Il cuore continuava a pulsare forte, ci vollero alcuni minuti prima che il ritmo tornasse regolare. A quel punto sciacquai il lavandino. Se la nonna si fosse accorta che avevo rimesso tutto il caffellatte, me ne avrebbe preparata un'altra tazza. Mi sentii più leggera e anche un po' euforica. Non sarei ingrassata, non sarei diventata una cicciona con i salami alla vita e le cosce come dei prosciutti".
Però anche se Linda ha solo dieci anni, o forse proprio per questo, non riesce a parlare con nessuno del suo problema, un segreto che la insegue.
Ma le prime pagine di Vorrei essere come sono non devono confondere il lettore: non è un libro sull'anoressia ma sul disagio giovanile, una malattia non diagnosticabile, non ha le caratteristiche di una specifica patologia, perché la causa non è univoca; non è semplicemente un problema sociale, ma è uno star male che a sedici, diciassette, diciotto anni può essere mortale. Sì, Linda è una disagiata che soffre ma che spera in una fuga verso una vita migliore. Dove? Non lo sa neppure lei. L'importante è scappare, dalla famiglia, dalla scuola, dalle regole di una vita troppo stretta. Fuggire per fare cosa? Non lo sa, intanto fuggire, fuggire innanzitutto con la fantasia, lei così asociale, così in lotta anche con se stessa. Mentre la professoressa spiega le disequazioni di secondo grado lei disegna una fila di tarli lungo la schiena di una donna. Maledetti, sempre loro!
"Sei un'artista. Ma sono raccapriccianti" è il commento di una compagna di classe.
Eppure Linda alla fine non scappa, decide di restare nel suo piccolo universo fatto di nonne e di insegnanti. Sarà proprio una di loro, inconsapevolmente, a salvarla, quando si sentirà amata e accettata per quello che è.
Recensione di Elisabetta Broli
CHIARA ALESSANDRA PISCITELLI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia giovane
“Un bene palindromo (LietoColle 2017) è la mia prima raccolta di poesie, composta da tre sezioni: parte prima, parte seconda e Cambia la geografia. È un libro pieno di bene, l’aggettivo palindromo vuole evocare proprio questo, che si possa trovarne da principio a fine, da fine a principio, lo stesso bene che ne ha mosso la totale stesura.” Parole dell’autrice stessa, Chiara Alessandra Piscitelli, che, nata nel 1992, vive in provincia di Caserta. Parole che è necessario interpretare alla luce di un libro che appare percorso, fin dai primi versi, da una ostinazione negatoria asserita con incisività: Non di più vorrei, ma sempre,/..../non coprirti mai./.../Non darmi geografie, /più di tutto vorrei sconosciuto il mondo./ Recita il testo di apertura della silloge. Atteggiamento che si completa in una attitudine altrettanto insistita alla contraddizione, rimarcata ovunque: ...cresce la consapevolezza di te / -perduta-... In questa notte di febbraio noi siamo soli. / Lo penso e già mi contraddico / dico noi./... Ci siamo dati un codice di disconoscimento, / ogni trucco per perdersi è svelato./ e così via.
Vien da pensare allora alla “palindromia” (ci si perdoni l’orrido sostantivo) come stato esistenziale, tensione verso la staticità implicita in ogni struttura a specchio, in cui il vero senso risiede nella composizione stessa del significante e nella fascinazione (giocosità?) che deriva da un movimento inverso a se stesso. Capace di trovare nel solipsismo la propria ragion d’essere ma anche il proprio circolo vizioso, struttura chiusa incantata dal gusto armonico della propria simmetria.
Perfetta, da questo punto di vista, la poesia programmatica che precede le tre sezioni del libro e che ne riassume tutte le valenze: Questo mio bene per te / s’è fatto palindromo / perché tu possa / -capovolta la clessidra / confuso il cronometro- / dire: “È la prima volta”./
Mentre nemmeno la scelta di copertina del libro è casuale. Una partitura per due violini di Mozart denominata appunto, proprio “Lo Specchio”, per essere leggibile da sopra a sotto e viceversa, dal sotto all’insù. Un palindromo musicale vero e proprio.
Diventa lecito allora indagare la struttura stessa dell’opera, della quale, essendo composta da 1 poesia introduttiva + parte prima (11 testi) + parte seconda (11 testi) + Cambia la geografia (10 testi) si può individuare il centro del palindromo e quindi dell’ipotetica simmetria globale nella poesia: È dove la parola cresce alta.../ allusiva fin dall’incipit ad un luogo: /...con radici in cielo e in terra./ Dove l’io e il tu stanno al mondo “...con desideri capovolti,/ e: /...presto o tardi / c’è un posto dove il silenzio / è gramigna e non puoi estirparla. / Lì, più alta del silenzio / la tua voce –sola./ La contrapposizione parola vs silenzio con l’apoteosi del silenzio immediatamente negato dalla presenza della voce del “tu”, ma sola, ormai, separata dall’io, esalta il nucleo contenutistico – drammatico della silloge che ruota interamente sul perno di un rapporto io/tu a sua volta sempre negato, ma mai completamente rescisso. Immobilità, scorrere del tempo, presenza, assenza, incontrarsi senza trovarsi, parlare senza dire e raccontarsi nel silenzio sono gli estremi, destinati a toccarsi, di un cortocircuito che definisce un enigma: quello di un rapporto che, nel momento in cui appare inconoscibile, è altrettanto innegabile. Io e tu quindi reali, con tratti di fisicità baluginante, carnale e umana, ma anche assolutizzati, simbolici, affidabili alle infinite interpretazioni del lettore.
Certamente qualcosa che viene indagato, riflettuto e “riflesso” nella scrittura nel momento stesso in cui questa si deposita sulla carta. Sequenze di immagini che sono prese di coscienza in tempo diretto, o stupite folgorazioni: Le cose che non iniziano si costruiscono per sottrazione / reggendosi su timidi condizionali /... Per questa ragione non abbiamo parlato più / perché la sete non si risolva e resti / sempre sospeso il sospetto del ritorno./ Così ha inizio il silenzio, / per una parola troppo a lungo pronunciata / che incrina un sorriso liquido, nudo, sul tuo volto, / e lo rompe./
Versi quindi necessariamente “scaraventati”, che sembrano costruiti su lunghe sequenze concettuali sincopate da improvvisi pudori, forse inconfessati ravvedimenti per troppo dire. E talvolta si spezzano, sorpresi da loro stessi.
Ci si può chiedere allora dove stia (o cosa sia) il “bene” protagonista del titolo e riaffermato dall’autrice. Forse il bene sta proprio in questa operazione altamente ambiziosa dello .../scrivere versi onesti come unica possibilità/ nel momento in cui è un: /dirsi addio col petto gonfio / e non una parola / nemmeno una./ - ennesima contraddizione!-: raggelare la vicenda umana nella “palindromia” è infine sottrarla al tempo e assolutizzarla in un bene, un tesoro che dell’io diventa patrimonio incancellabile. Una oggettivazione che fa del fatto verbo e del verbo cosa: trasmutazione alchemica la quale, attraverso la facoltà dell’io di custodire, supera l’io stesso: /Ma io ricordo –che disonore- / E la memoria mi sopravvive / ombra più alta di me./
Recensione di Andrea Tavernati
PIETRO RAINERO - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Narrativa edita
Una spruzzata di matematica, da scuola superiore, non è indispensabile ma può far apprezzare maggiormente Logica stringente, il libro di racconti di Pietro Rainero (il Convivio Editore), tra i finalisti del Premio letterario Europa in versi per la sezione Narrativa edita. Perché sono una serie di gialli, o forse sarebbe meglio chiamarle fiabe per adulti, che si risolvono grazie a equazioni esponenziali, potenze e cose del genere. Un libro divertente, va detto subito, divertente e curioso: per l'autore la vita è tutta matematica o fisica e tutti i problemi sono risolvibili.
Anche quello della principessina Alma, il cui gioco preferito era una palla d'oro lucente e pesante, che portava sempre con sé. Lanciala oggi, lanciala domani, la palla finisce per arrivare sulla luna, un po' a sud-est del Mare della Tranquillità. Il re, che adorava la piccola primcipessa, radunò subito i più saggi sapienti del regno per capire come recuperarla. Già, come? La discussione durò ore, ci furono parecchi litigi, ma alla fine i saggi seppero solo dire che non avevano la più pallida idea di come fare. Non si potevano di certo costruire torri o scale, e l'idea di sparare una palla di cannone, a cavalcioni della quale mettere un volenteroso giovanotto, non andava bene (non era ancora stata inventata la polvere da sparo). Fu accantonata anche l'idea di lanciare un aeroplanino di carta come fosse un boomerang, perché l'aeroplanino non avrebbe potuto abbandonare l'atmosfera. Nel frattempo la principessina non faceva che disperarsi: la palla restava a 400.000 chilometri di distanza.
Involontariamente, la soluzione arrivò grazie all'astronomo reale, che convinse il re a convocare un giovane, brillante membro dell'Accademia delle Scienze di Mosca: Ivan. Arrivò e dopo aver - anche lui! - ascoltato discussioni infinite disse: "Visto che non possiamo fare altrimenti andremo sulla luna piegando molte volte un qualsiasi foglio di carta. Quello che ho in mano e che è stato piegato 7 volte ha ora uno spessore di circa un centimetro e tre millimetri. Bene, continueremo a ripiegarlo in due fino a raggiungere la distanza che vogliamo". Tutti gli chiesero: ma quante migliaia di migliaia di volte dovremo ripetere l'operazione per raggiungere i 400.000 chilometri? Per Pietro Rainero e per Ivan la soluzione è matematicamente semplice, quarantadue volte, e infatti alla fine la palla d'oro viene recuperata e restituita alla felice principessina.
Un libro carico di ironia, che gioca con i paradossi senza dimenticare i cortocircuiti della logica: certo, si può con un semplice foglio di carta, e con la logica, andare sulla luna e coprire una distanza di 400.000 chilometri. La logica, sembra dirci l'autore, è alla base del nostro vivere quotidiano, senza logica e matematica il mondo non potrebbe stare in piedi. Con il libro vuole dimostrarlo. Il lettore si diverte; con un po' di concentrazione, un foglio e una biro riesce a seguirlo nei suoi ragionamenti, dentro a formule matematiche - le "maledette" funzioni esponenziali del liceo! - che fanno l'occhiolino all'esperimento filosofico. Il lettore si confronta, prima di tutto, con se stesso.
Pietro Rainero è laureato in Fisica ed è docente di matematica e fisica al liceo artistico di Acqui Terme, dove è nato. Ha scritto ottanta racconti, è presente in numerose antologie e ha al suo attivo 33 primi posti nei concorsi di narrativa. Ha cominciato a scrivere fiabe e racconti nel 2001, quasi per gioco, con cinque novelle da regalare alla figlia per Natale. Da allora non ha più smesso, dando vita ad un intrigante rapporto tra le parole, le formule e i numeri.
Recensione di Elisabetta Broli
BRUNO CIMINO - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Narrativa edita
"Quando vivevo a Tropea, per la gente comune, come me, era una lotta continua. Ogni giorno, per campare, mi dovevo confrontare con una realtà piena di difficoltà. Il bisogno condizionava la mia personalità, mi costringeva ad essere un altro, a pensare diversamente da quello che avevo in mente". Comincia così "I cosi, quandu si cùntunu, pàrunu nenti - Le disgrazie, quando di raccontano, sembrano niente", il lungo racconto di Bruno Cimino, tra i finalisti del premio letterario Europa in Versi, per la sezione narrativa edita (Editore Meligrana). Bruno Cimino è un giornalista con una lunga esperienza che incide positivamente sulla scrittura di questo libro: veloce, asciutta, mai retorica, non una frase inutile. Un libro con la traduzione a fronte: nelle pagine a sinistra il testo in calabrese, il calabrese di Tropea, nelle pagine a destra il testo in italiano. Un segno forte di amore per la propria terra.
Francesco Dibruno, detto Cicciu di Gesuiti, vive a Tropea insieme alla moglie Rosaria e ai due figli piccoli. Il suo problema è "elemosinare" ogni giorno un lavoro. Fa tutto quello che capita, dal bracciante agricolo al pescatore al trasportatore, sempre con nel cuore la consapevolezza di avere una famiglia e di dover portare a casa non il superfluo ma da mangiare. Non è facile trovare un lavoro, non è facile sopravvivere in un mondo dove a farla da padrone è la povertà, dove la vera fatica non è lavorare ma - appunto - trovare da lavorare. In questa situazione a Cicciu un giorno viene prospettata la possibilità di avere un lavoro stabile in Comune, quindi vero, in cambio del suo aiuto politico per un candidato alle elezioni in arrivo.
Ecco, il lungo racconto si gioca tutto davanti a questo bivio, accettare, cioè svendersi a chi non si stima per avere uno stipendio sicuro a fine mese, oppure rifiutare e tenersi tutta la propria dignità? Perché - come è scritto nel libro - "rimane la consapevolezza che nella vita esistono buone e cattive azioni che favoriscono o danneggiano qualcuno o qualcosa: allo stesso modo decidiamo se e quando essere consapevoli, per questioni di convenienza, oppure facciamo finta di non capire, di non sapere, di non ricordare, e ingoiamo": Cicciu preferisce non vedere e ingoiare o vedere e continuare a vivere nella povertà? Anche perché "non era nel mio carattere piangermi addosso, ma, in quel periodo, sembrava che tutto girasse storto. Una sfortuna dopo l'altra mi dava da pensare che come me non c'era nessuno. Mio padre, quando qualcosa gli andava male, era solito dire che, se si fosse messo a fare cappelli, la gente sarebbe nata senza testa. Io avevo in mente lo stesso turbamento".
"Le disgrazie, quando si raccontano, sembrano niente" è lo spaccato di un Sud Italia ancora vicino a noi, ma di un'Italia che non vuole arrendersi davanti ad un mondo del lavoro che la respinge. È un libro - come scrive l'autore nella prefazione - "dove il sentimento del singolo vince contro le avversità. Qualunque esso sia, il messaggio ė non mollare mai nei momenti di apparente sconfitta".
Dal libro è stato tratto un film - o viceversa - ispirato a un fatto realmente accaduto in un paesino della Calabria negli anni '80 e riportata da un telegiornale, la terribile vicenda di un disoccupato che, per la disperazione di non aver ricevuto per Natale il contributo del Comune, si suicida.
Recensione di Elisabetta Broli
STEFANO MARINO - vincitore del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia dialettale
È il paesaggio della Calabria il protagonista del libro Mùffura di Stefano Marino (Interlinea, 2013), vincitore del Premio Internazionale di Poesia e Narrativa Europa in versi nella sezione di Poesia dialettale. Un paesaggio di aspra bellezza, riarso dal sole che “senza umbra si ndi chiumba /cade senza ombra in verticale”, dove terra e mare sembrano unirsi in un amplesso impossibile e la luce del giorno si dilata abbagliante, avvolgendo tutto in un’aura mitica per declinare e spegnersi nella quiete misteriosa della notte. Luce che è ansia inesausta di conoscenza da parte dell’uomo e simbolo di trascendenza, di ciò che non è possibile sapere e per questo sempre offuscata dall’ombra: “canta ll’umbra, Luci s’ammucciau, / ca voli ‘ssiri sempre scanosciuta / ché nell’ombra la Luce si e nascosta, / ché sempre vuole essere sconosciuta /”. Le poesie della raccolta ci svelano una natura primigenia, che pulsa di vita, animata da piante e animali che hanno la stessa dignità degli esseri umani e sembrano conservare un’antica saggezza come le “fogghi ri na fica stenta, chi ‘rricchia vuci chi non nd’ anno vuci / e i χuχχa ch’a pùrbiri r’u ventu / foglie d’un fico stento / che ascolta voci che non hanno voce / e le soffia con la polvere del vento” o “Ḍa zafrata c’a testa rivutata / si introna suli, chi s’a pigghia sana / La lucertola con la tesa rigirata, / intontisce il sole / che la prende tutta”. E sono proprio queste creature che sembrano dare al poeta il senso della propria esistenza, offrire risposte, sia pure non definitive, all’inquietudine legata alla consapevolezza che la nostra vita è terrestre ed effimera: ”E forzi sunno ll’occhi ra livara, / à zagarar’arancu, ru limuni, / suḍḍichi mi vàdanu pi ‘ssiri / nta su mundu, picchì m’arricanusci / E forse sono gli occhi dell’ulivo, / la zàgara dell’arancio, del limone, sono loro che mi guardano perché esista / in questo mondo, perché mi riconosca”. Il poeta volge il suo sguardo anche alla storia millenaria della sua terra, ai ritmi che per secoli hanno scandito le fatiche dei contadini, alle loro vite semplici eppure così ricche di valori, agli “strumenti umani” che sembrano fondersi con i corpi stremati dal sole e dal caldo delle estati del sud e con i quali hanno dissodato, zappato, reso fertile la terra: “ch’i vrazza u zappuni trova ‘bbentu,/ vuccuni ncuni, atri panz’a ll’aria / la zappa, con le braccia trova riposo, / bocconi alcuni, altri pancia all’aria”. E anche “Ri tàvula nu pezzu camulatu, / mpurrutu pur unta rrina und’esti, / r’u suli janchïatu e pu sali / Un pezzo di tavola tarlato, / anche marcio dove sta nella sabbia, / dal sole sbiancato e per il sale” trovato sulla spiaggia si fa correlativo oggettivo del recupero della memoria, dimensione che la parola poetica ha la forza e l’intensità capaci di fissare nel tempo, stabilendo un legame di fratellanza con popoli distanti solo poche miglia marine e con “Capiḍḍi stissi, ‘pparu occhi ‘i notti, i carni ra livastra ri mè frati. / Stessi capelli, uguali alla notte gli occhi, / le carni dell’olivastro dei miei fratelli”.
È il poeta a spiegare la scelta di scrivere in dialetto reggino, mescolato ai dialetti della Locride e di della Piana di Gioia Tauro, zone da cui provenivano il padre e la madre: dialetti che ha ascoltato e “assorbito” sin dall’infanzia, sia in casa, sia ascoltando i compagni di scuola e di gioco, sia la gente che parlava per le strade, benché i genitori si rivolgessero a lui in italiano. Numerose sono anche le etimologie greche e tardo latine, come l’autore stesso ha sottolineato.
Marino usa in prevalenza le forme classiche dell’endecasillabo, “con scelte ritmiche che sottolineano i suoni aspri della lingua dialettale di Reggio Calabria mescidata da influssi jonici e della piana di Gioia Tauro”, come ha osservato Ombretta Ciurnelli.
Recensione di Laura Garavaglia
STEFANO SIMONCELLI - vincitore del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia edita
“Poesia improntata come poche altre dal sentimento della perdita, dell’abbandono, della solitudine”. Così Roberto Galaverni, su La Lettura del Corriere della sera del 30 aprile, ben coglie l’essenza della raccolta Prove del diluvio di Stefano Simoncelli (Italic Pequod, 2017). Una raccolta dove prosa e poesia si alternano a distinguere forse anche nella scelta formale un diverso recupero della memoria, dove i versi sono dedicati a tre figure fondamentali e non più presenti nella vita del poeta: il padre, la madre e la moglie. Le brevi prose sono invece rivolte a personaggi, che vivono nelle pagine in equilibrio tra realtà e immaginazione, dei quali il poeta ricostruisce momenti di vita: Il vecchio figlio di Ignazio Sottochiesa, Elenio Wagner Debiasi “il ballerino” e la sua solitudine interrotta da una personaggio, Coso, creato forse dalla sua fantasia, o il nano Giuseppe Pantaleoni, “il giocoliere” che lavorava in un circo, dignitoso e professionale nella sua esibizione davanti al pubblico.
La figura del padre, a cui è dedicata la sezione iniziale del libro, sembra davvero rivivere attraverso le stanze vuote della casa di Cesenatico dove ha abitato, nelle cose che gli sono appartenute ”Cose senza valore / che dovrebbero significare niente / invece commuovono”. Segni di una presenza che può essere riportata alla memoria solo attraverso quegli oggetti, vecchie fotografie che fissano in uno scatto frammenti di vita, gli attrezzi da lavoro che ricordano al poeta “interi pomeriggi / in cui lo sentivo segare / lunghe assi di legno / sbarre di ferro, martellare, / trapanare e ogni tanto ferirsi / con un chiodo o una scheggia”. C’è un senso di struggente, desolata assenza, un vuoto che deve essere colmato in qualche modo. E non sono solo gli oggetti a riportare alla memoria ricordi che sono sempre e comunque sfuocati da un tempo irrecuperabile. C’è anche la volontà di abbandonarsi alla dimensione onirica o meglio a quel confine sottile e permeabile tra realtà e sogno che ci preserva dal dolore della perdita di chi abbiamo amato. Un groviglio di sentimenti, malinconia, nostalgia, rimpianto che confondono passato e presente e che richiamano il poeta, ed ogni essere umano, alle proprie radici, come si evince da questi commoventi versi “in qualunque strada mi trovi, mi perda / o creda semplicemente di sognare, sto sempre ritornando a casa. / Sto sempre ritornando a casa di mio padre”. Il sentimento della perdita, dell’abbandono è vivo anche nelle sezioni dedicate rispettivamente alla madre e alla moglie. La madre, il cui ricordo è legato al suo talento “umile e ostinato” (Il talento di mia madre si intitola appunto la sezione a lei dedicata), mentre cuce un abito di tulle e paillettes o la rivede “nella vestaglia rossa di fustagno, / sempre quella da un ricovero all’altro” e che il poeta vorrebbe indossare “per provare cosa si sente, / se mai si sente qualcosa, / quando sparisce l’aria / in fondo all’abisso”. O ancora nei ricordi d’infanzia, quando la madre torna alla mente del poeta attraverso il profumo di mughetto che si metteva quando usciva con lui per portarlo alle giostre o a mangiare un gelato. E pervase da un intimo, profondo dolore sono le poesie dedicate alla moglie, nella sezione Cartoline al tuo silenzio: presenza immateriale, ma costante che si muove tra realtà e sogno nella vita del poeta e alla quale invia messaggi che mai potranno avere risposta.
Il libro, come scrive Simoncelli nella poesia che chiude la raccolta, è un viaggio a ritroso, su un treno immaginario sul quale il poeta è salito come “un fuggiasco dalle prove del diluvio / o un clandestino senza documenti e biglietto”, dove i ricordi si confondono e sfumano e sembrano fuggire via veloci, come “un paesaggio spaventato”. Ed egli sembra sentire tutto il peso dell’esistenza, come se quei ricordi fossero troppo intensi, compressi, come se pesassero sull’anima senza potersi ormai alleggerire. E allora è come se volesse chiudere un periodo della propria vita, congedarsi da presenze, volti, voci che non potranno tornare: “Penso che ho fatto il mio tempo, / dato tutto il peggio e tutto il meglio. / Tiro il freno d’emergenza, / saluto tutti e scendo”.
Recensione di Laura Garavaglia
MARIASTELLA EISENBERG - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Poesia edita
Clandestina / della vita / è / la Morte / noi pensiamo / stupidi umani / presuntuosi bipedi. /...É / la vita / la vera clandestina / del mondo / Ella pensa./
Può la poesia avere una funzione, o anche soltanto un senso di fronte alla morte? Ancor più di fronte alla morte di una persona cara, carissima, come può esserlo un figlio? È in queste circostanze che si tocca con mano quel ribaltamento illusorio su cui si fonda la quotidianità, l’idea che la morte sia un accidente, un inciampo nel quale ci si può imbattere, ma che si deve mettere tra parentesi, esorcizzare, dimenticare infine. Invece no: Ho saputo / da qualche tempo / che / hanno inventato la morte./ Mariastella Eisenberg affronta l’incomprensibilità e l’indicibilità della morte con un impatto frontale che non cerca metafore consolatorie né scusanti sentimentali né si aggrappa ad una troppo facile necessità di elaborare il lutto, funzione che la poesia si dice possa assolvere. L’atteggiamento assunto dall’autrice è ben riassunto dal titolo della prima sezione, “Andromaca”, con quel riferimento alla volontà consapevole di affrontare il dolore a viso aperto, ma anche con una dignità e una compostezza che non lascia alla morte alcuno spazio di commiserazione o sarcastica irrisione per la pochezza dell’essere umano. Piuttosto la novità è per la madre l’inoltrarsi in un territorio sconosciuto, dal quale non è più possibile tornare indietro: reduce / di ferita incurabile e inguaribile / reduce / straniero in patria / reduce / nel proprio letto.../ La condizione del reduce, di colui che è uscito da un travaglio così grande che non potrà più essere quello che era stato prima: un mondo di deriva, ma non di esilio, nel quale Solo / parole / curano / un poco / l’orrore/... Quelle scritte, quelle degli altri, che non segnano comunque una chiusura in se stessi.
E infatti l’autrice è ben cosciente dell’universalità del dolore della madri, cui si apre nella seconda sezione del libro, con un altro titolo molto esplicito: “Mito Cronaca Storia” a partire da Maria, la madre/di tutte le madri / solo / la madre / di tutte le madri / sa... per passare attraverso le evocazioni ancora di Andromaca, in quanto madre di Astianatte e di quella, mai nominata, di Icaro: Forse / anche / Icaro / ebbe una madre: / pianse le ali bruciate dal sole /di figlio imberbe. / Per arrivare a chiamate in causa madri molto più vicine a noi e reali: la madre di Jan Palach, studente suicida per protesta all’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1969, quelle dell’inondazione di Messina del 2011, quella di Marco Simoncelli...
Ma il mal comune non costituisce risposta ad alcun interrogativo e allora nelle sezioni successive il dialogo con “la bellezza dell’oltre”, con chi è soltanto / passata dall’altra parte/... si fa più fitto, non nell’illusione di un delirio di continuità che avrebbe soltanto la stessa funzione lenitiva di un parlar coi morti di fronte ad una lapide muta o potrebbe simulare una blanda forma di follia, ma una lotta per la persistenza nell’assenza che si fa non-sacra rappresentazione con quattro personaggi: la madre, la morte, il tempo e la figlia: Nel petto / celato / oceano di lacrime / affianco / cammino struggente: / frammenti / scaglie / pezzi / schegge / di te / pazientemente / annodo / incollo / collego.... e Tempo / divoratore / di persone e cose / la tua mannaia / la Morte.../ dove le parole sono appena dette farfugliate mormorate, uno strumento imperfetto per tentare una via che rimetta insieme i pezzi di un Caos sedato di amorosa pietà.
Ma è soprattutto nelle parti finali di Madri vestite di sole che la parola riprende il sopravvento e vale a costruire un dialogo ininterrotto, una pagina che si fa libro e quindi storia, una storia ossimorica, fondata su un Noi nel quale una delle due metà è assente, nel quale la parola è silenzio. Eppure la storia non solo c’è stata, ma c’è, è un pezzo di vita che nessuno potrà togliere all’universo: Fummo / insieme / parole / molte / poche / mai contate tra noi. / In fondo / al giorno / che è stato / si salveranno / invecchieranno / invece / di te / scorrendo / lente e curve / sulla pagina / lasciata aperta.
Preludio allo splendido canto corale dell’Epilogo, in cui la dimensione singhiozzante dei versicoli ridotti al minimo, che caratterizza tutta il libro, torna ad assumere un valore collettivo, cosmico, davvero da tragedia greca, aprendosi con una rabbiosa e mesta insieme dichiarazione di volontà di riappropriazione della vita: Che la festa cominci / mutaciche donne / di piene parole in possesso: cantate. / Nel protagonismo della memoria, una memoria immarcescibile, che gronda lacrime e sangue e che infine trova nella parola il suo mezzo per fare /...visi di viole del pensiero / sorridenti./ Che è l’ultima parola del libro e ritrova quella nota positiva presente fin dal titolo di copertina, quelle madri nude, vestite appena di sole, ma appunto, di sole.
Recensione di Andrea Tavernati
SANDRO ORLANDI - finalista del premio Europa in versi 2017, sezione Narrativa inedita
Quando entrò nell’appartamento la prima cosa che avvertì fu un forte odore di chiuso e la voce dell’appuntato Papalìa che sovrastava quella degli altri.
«Oh ecco il maresciallo va!» disse subito appena lo vide.
Vincenzo seguì il brigadiere ma quando vide il cadavere rimase basito. Stava accasciato a terra, le braccia sollevate e i polsi stretti da una fascetta di plastica da elettricista, di quelle che si possono riaprire solo con le forbici. Questa fascetta era a sua volta stretta attorno al tubo di riscaldamento che fuoriusciva dal muro. La testa era avvolta da una busta di plastica trasparente, di quelle che alla base hanno un laccetto che si stringe. E intorno al collo infatti ce l’aveva il poveretto. Aveva la bocca spalancata nell’ultimo vano tentativo di respirare e a Vincenzo tornò in mente l’incubo della notte passata. Lo sguardo però era rilassato, quasi rassegnato e la cosa gli risultò strana: non c’era traccia di paura nel suo sguardo.
Comincia praticamente da qui il libro “Il caso Timbari” di Sandro Orlandi, finalista al Premio internazionale di poesia e letteratura Europa in Versi, per la sezione inediti.
Se vogliamo ordinatamente inserirlo in una categoria letteraria possiamo parlare di “giallo”, c’è un morto, c’è un maresciallo che indaga, ma un giallo alla Camilleri, il maresciallo ricorda il commissario Montalbano, con la sua ironia, la voglia di arrivare presto alla verità e il fiuto: ci vuole anche questo per catturare il colpevole. Orlandi ricorda lo stile elegante di Camilleri perché – come lui – del vero protagonista del romanzo racconta la vita quotidiana, i piccoli problemi, un raffreddore che non se ne vuole andare e gli tappa il naso allo sfinimento, l’incubo notturno – che angoscia ritrovarsi in una bara dove a stento si riescono a muovere solo le mani e gli avambracci, il resto e le spalle incastrate -, il problema del trapano nell’appartamento del piano di sopra che rompe i timpani. E, come Montalbano, il maresciallo Vincenzo è un buongustaio che ama cimentarsi in cucina guardando sul terzo canale della Rai il programma culturale Geo. Penne alla Vesuviana è la ricetta che vuole provare, una ricetta semplice ma fantastica, quando il telefono squilla e il dovere lo chiama. Il trillo sembra volergli rovinare le giornate: sono i colleghi, c’è il nuovo caso da risolvere.
Cosa ne pensa? Certo, un morto per soffocamento, tale Timbari Pietro, la casa a soqquadro, la scientifica al lavoro, indizi e sospetti. Ma Timbari Pietro non si era recato nel suo studio esattamente nove giorni prima dell’omicidio? Forse è il caso di andare a parlare con un certo Mucci Antonio, chiamato in causa dalla vittima proprio in quell’occasione. Timbari Pietro gli aveva fatto l’impressione di un uomo tormentato, ancora molto sofferente perché la moglie da qualche mese l’aveva mollato affermando di non amarlo più. Gli era parso in balia di una grande inquietudine, di un malcelato rancore che l’avevano distratto da quello che l’uomo gli diceva: e ora aveva la testa chiusa in un sacchetto di plastica. Una semplice storia di amanti e tradimenti? No, anche se il finale – come per tutti i gialli che si rispettano – non può essere svelato.
Questo romanzo di Orlandi sembra scritto per essere trasformato in un film. I personaggi sono tratteggiati con intelligenza e ironia, il racconto scorre via veloce, la giustizia non vede l’ora di trionfare, ma il lettore deve aspettare fino alla fine per sapere il nome del colpevole. Un racconto con il cuore, con un’atmosfera intimista e riflessiva, in grado di narrare un maresciallo in bilico tra l’uomo della legge e la persona comune che riesce ancora a sorprendersi e a gustare un buon piatto di pasta. “Il caso Timbari” appassiona il lettore perché lo aiuta a entrare nell’anima e nella mente umana di un assassino, lo aiuta a intuire i pensieri di chi decide di porre fine a un’esistenza.
Recensione di Elisabetta Broli